Inaugurazione 31 marzo 2009, ore 19:00
Galleria Interno Ventidue – Palazzo Taverna, Via di Monte Giordano 36, Roma
Evento inserito nel programma del FREAKY FRIDAY – Rome: the Road to Contemporary Art 2009
Testo critico di Martina Cavallarin:
L’ultimo nastro di Krapp è una pièce di Samuel Beckett considerata uno dei suoi capolavori. In questo atto unico il drammaturgo irlandese riesce a condensare, in una dimensione tragicomica volutamente scarna nei dialoghi e nei gesti, il senso del rapporto tra l’Uomo e il Tempo e tra l’Artista e il fallimento dell’Arte. Krapp ha sempre registrato su delle bobine un diario che puntualmente il giorno del suo compleanno riascolta. Il titolo dell’opera ci porta chiaramente alla conclusione: il vecchio Krapp non avrà il tempo per registrare un altro nastro, la sua unica opera scritta non ha venduto quasi nulla ed i suoi propositi di gloria e successo si rivelano nella loro totale negatività. Ha rinunciato alla vita vera per fallire nell’Arte. Ma questo senso di failure così presente nel teatro beckettiano mi porta per eccesso ad una necessaria dimensione di speranza. I giovani artisti hanno bisogno di fare e di credere, di avere, sempre, un’altra occasione e attraverso questo, con ossessione ed energia, stare in equilibrio sul bilico della soglia. Ecco come nasce il titolo per questa mostra a tre – Lamberti, Moretti, Novello – alla galleria Interno Ventidue di Roma, Un altro nastro per Krapp.
La giovane arte contemporanea deve lavorare, per coincidenze storiche e culturali, in una zona sottile, nel tratteggio di una frazione, in una dimensione infinitesimale, quella stessa linea solo pensata che Marcel Duchamp ha chiamato inframince. Lo spazio minimo tra due cose, il tempo e lo spazio che apparentemente non si possono misurare né distinguere. Apparentemente. Si tratta di una differenza irrappresentabile. L’opera d’arte sembra destinata sempre alla vista e allo sguardo. Tuttavia concepire una creazione partendo da ciò che è invisibile si inscrive, e senza alcuna schizofrenia, nello stesso meccanismo di ciò che è visibile. Infatti, se attraverso le parole o i suoni, si può arrivare a una dimensione altra, magari più alta, a una dimensione spirituale, significa allora che la creazione artistica, anche quella visiva, appare lasciando però passare molto più di ciò che si vede. La lettura retinica non si ferma alla contemplazione pellicolare, ma ci porta ad una contemplazione spirituale. In questo senso visibile ed invisibile da sempre tengono aperto il dibattito e allargano la domanda.
Lucia Lamberti – Gianni Moretti – Maria Elisabetta Novello sono giovani artisti che devono tenere aperta la zona della speranza e che, in maniera differente e con diversi linguaggi, esplorano la dimensione dell’invisibilità.
Donald Judd diceva «l’arte è una cosa che si guarda». Lucia Lamberti dipinge partendo da frames di scene televisive che blocca, fotografa e riporta con il pennello sulla tela. Il suo lavoro va oltre al soggetto cercato, alla scena riprodotta, va oltre lo choc di immagini truculente, della violenza delle fiction televisive, delle donne con la pistola e del sangue sprecato. Il suo lavoro va al di là di ciò che appare. La sua pittura, attraverso lo sguardo strabico della mano e del pennello, eleva l’immaginario e sbriciolando, frammentando e ricomponendo, si avvale del fascino dell’indagine antropologica, contravviene alla tradizione dell’attrazione, sovverte le categorie. Allora la resa finale porta in sé ciò che non appare, i suoi quadri amplificando i fenomeni sottolineano l’indefinito e decifrano l’indecifrabile.
- W. Friedrich Hegel nella sua Estetica afferma che le opere d’arte sono “ombre sensibili”. Il lavoro di Gianni Moretti trasmette la stessa qualità sostanziale. La sua ricerca parte dal corpo, si espande attraverso la tecnica della carta forata che fa passare i pigmenti a comporre forme che attingono alla realtà della percezione, ma che aspirano ad essere soprattutto ciò che non appare. “Ombre sensibili” appunto, come il tessuto ritagliato per lasciare i contorni di corpi spariti o smarriti nella memoria, le fettucce che si srotolano su pavimenti e pareti, resti tangibili di ciò che c’era ma che non può essere visualizzato direttamente. L’opera è proiettata nell’invisibile e in ciò che è stato lasciato trova la sua forza più pura e più contemporanea.
Maria Elisabetta Novello lavora con la cenere. Un materiale quasi intangibile, sempre traccia di qualcosa, sempre impressione di qualcosa d’altro, posto al di là del visibile attraverso una sensibilità che si avvale di memoria, pratica, scomparsa di persistenza, evoluzione poetica. La sua cenere è una proclamazione d’assenza, recupero prezioso di vuoto, di incerto, di indefinito. Novello cataloga la polvere perché nella materia è presente ineluttabilmente il concetto del dubbio. Le sue teche contengono microinformazioni labili ed evanescenti di oggetti che non ci sono più.
Dice Vasilij Kandinskij in Lo spirituale nell’arte: «la delimitazione esteriore è utile e opportuna quando fa risaltare espressivamente il contenuto interiore della forma».
Un altro nastro per Krapp è una mostra che implica un’infinita molteplicità di segni che sussistono parallelamente sulla superficie delle tele della Lamberti, tra i granelli di cenere della Novello, sulle curvature specchianti di Moretti. In tutti e tre gli artisti il processo di percezione innesca collegamenti tra sistemi culturali e crea contesti, implica una “visione superiore”, un atteggiamento da indagine a “raggi X” che spiazza e spinge a fare un passo in avanti, verso la crescita, la curiosità, il significato. L’intreccio dei linguaggi porta poi a movimenti ancora più laterali grazie ai trasferimenti di senso e a un’accettazione del pluralismo. La consistenza di concezioni e strategie estetiche che si contraddicono a vicenda implicano un’armonizzazione tra presente e futuro, tra strategie empatiche e livelli differenti di esperienza.